CRITICISM

ALESSANDRA REDAELLI (critica d'Arte)
Scorci di inquietudini metropolitane


I paesaggi di Luisa Maggioni, stilizzati fino a sfiorare l'astratto, sono labirinti dei quali si è persa l'uscita, quasi una scrittura segnica primitiva che si vorrebbe decifrare per trovare la chiave di un mistero che non ci dà pace.

PLACIDO DI STEFANO (scrittore)
Civiltà

L’obiettivo puntato dall’alto, o frontalmente, da una finestra appannata, rigata d’umidità, su cui si irrivola una pioggia densa e su cui s’apre la visione d’insieme di una città. Palazzi di vetro e cemento che si intersecano con tratti espressionistici, nitidi e allo stesso tempo sfocati, perché l’aria attorno è insalubre, è sfalsata da una chimica di particelle infinitesimali che si depositano su ogni cosa, rendendone greve il respiro. E le sacche polmonari incastonate nella cassa toracica cittadina si alzano e si abbassano con un ritmo respiratorio costante, seppure ansante, seguendo il vibrare vitale della città stessa, che sembra un enorme essere vivente in continua evoluzione, in perenne movimento. È questo che si percepisce osservando le opere di Luisa Maggioni, pittrice milanese, classe 1978, che ci rende uno sguardo vitreo ed essenziale sui luoghi dove le vite degli uomini si intersecano, si arrabattano, corrono, combattono l’eterna lotta per la sopravvivenza. Luoghi che sembrano disabitati, ma che invece pullulano di vita, dove gli esseri umani sono rappresentati come ominidi ancestrali, riportati nei tratti essenziali e raffigurati nelle necessità primigenie: inforcano lance, combattono, copulano, rappresentati sempre in spazi limitati, ricavati come nicchie fortuite, dove si intravedono anche animali stilizzati – che sembrano far parte delle stesse architetture razionali e osservare silenti il continuo evolversi della storia dell’uomo – e resti fossili che simboleggiano il passaggio inesorabile del tempo, come diapositive significanti della storia. Le città come collettori di caos, dove le macchine rimangono sempre congestionate nel traffico, i sotterranei sventrati tremano al passaggio di treni, le fogne ribolliscono di acque insane – ma allo stesso tempo luoghi perfettibili, nei quali l’uomo stesso può trovare una sorta di equilibrio, un ordine immutato, nella geometria degli spazi, nella logicità delle infrastrutture, dove tutto è stato, e sempre sarà, dove chiunque può ricavarsi uno spazio chiuso e protetto, dove poter isolarsi e osservare le cose e riflettere. Una visione dai grigi cangianti, che si estremizzano e si smorzano, come le urla e i rumori soffusi della città. Uno sguardo puntato dall’alto, o frontalmente, da una finestra appannata, rigata d’umidità, su cui si irrivola una pioggia densa, lo sguardo dell’artista che sa cogliere l’essenza delle cose e le ritrae.

SANDRA LUCARELLI  (critica d’Arte e poetessa)
Ill Grigio di Luisa Maggioni

Inserito in diversi spazi pittorici il grigio di Luisa Maggiori diviene, evidentemente, un elemento selettore atto a creare nicchie entro le quali si innestano radici luministiche che ne confermano i contrasti.
Il grigio, dismorfismo del nero, ha una variabile accessoria che permette diluizioni dei supporti cromatici, per confluire nel bianco, attraverso sfumature sempre più evanescenti, atte a creare aloni di risonanze misteriche. Grigio come trait-d’union tra bianco e nero, termine medio tra il buio e la luce. Potrei parlare di un GRIGIO ORFICO, perifrasi ermetica e spazio della parola, circonlocuzione della luce stessa.
La forza di un’antica partitura di innesti germoglia ancora intenzioni di raggio

“GRIGIO ORFICO”

Un appoggio di pause
E di respiri
Morbido
Come nuvola sommessa

Un filamento di conchiglia
Disperso
In fibra perlacea
Di mare

FEDERICA MINUTI (giornalista)

In “Riemergere”, Luisa Maggioni dipinge il grigiore della sua città, affastellata in file di costruzioni addossate una all’altra, con pennellate capaci di rendere, in pochi ed elementari tratti, tutta la complessità del paesaggio urbano.
La visione del reale trapassa il dato sensibile e si erge a potente esortazione all’azione, in una spinta che, dal personale (l’interesse per la pittura rupestre che si legge nella scelta coloristica e nell’uso di simboli arcaici) si allarga all’universale per trasmettere valori e sentimenti che rivivono in piccoli tocchi vermigli capaci di accendere una viva sensibilità alle tematiche più attuali.                 

A.F.BIONDOLILLO (critica d’Arte)

Eccellente elaborato in cui si percepisce l’indagine delle cose attraverso  l’equilibrio dinamico della luce e un sapiente uso della tecnica

PLACIDO DI STEFANO (scrittore)

È uno sguardo vitreo, quello di Luisa Maggioni, pittrice milanese classe 1978, un richiamo urlato a una visione limpida di un mondo che ormai ai più appare sfocato, malato – e infatti le soggettive dei suoi lavori trascendono il suo punto di vista, e si fanno eco di una visione globale. È come guardare ciò che ci circonda attraverso finestre appannate, rigate dall’umidità, dove i rivoli che attraversano le tele possono sottendere una pioggia costante, come anche un pianto silente. Prendendo in considerazione gli ultimi lavori, ritroviamo spaccati di città (Milano, Genova, ma anche cittadine di provincia dove il cemento dilaga, Rho), come fossero fotografie sbiadite ritratte dall’alto: i grigi si alternano a tratti più scuri, che sfociano nel nero e che sembrano delimitare confini di costruzioni in rovina, di ponti distrutti, di strade in disfacimento – e le uniche figure umane o animali che si scorgono in questi spaccati sono graffiti ancestrali, gli stessi che i primi ominidi disegnavano in antri cavernosi e bui. È come se stessimo osservando i resti di un mondo in rovina, post-bellico e la razza umana, per come la intendiamo e conosciamo, si fosse estinta, azzerata, o ridotta a uno stato primordiale da una sconosciuta epidemia. E i richiami a questa catastrofe materiale, ma anche esistenziale, si possono già riscontrare nei lavori precedenti dove, prima di affrontare gli anfratti urbani, l’artista aveva ritratto in successione paesaggi apocalittici: orizzonti con esplosioni magmatiche, tempeste elettrostatiche, onde sabbiose, un mondo ferito, sull’orlo di un perenne baratro – ricorda lo stesso paesaggio descritto dallo scrittore americano Cormac McCarthy nel suo romanzo “La strada”. Solo che nei quadri della Maggioni, non vediamo più esseri umani e, se li vediamo (come nei lavori antecedenti a questi ultimi), non mostrano mai il proprio volto, ma è come se volessero nascondere qualcosa, o non volessero vedere qualcosa, forse una guerra imminente, o una in corso, la stessa che da anni subisce Kabul e che l’artista ha sapientemente ritratto all’inizio del suo percorso in una serie di quadri dedicati (“Su di me e su Kabul”), mostrandoci la rovina che ogni guerra produce. È un fil rouge continuo, un’opera consapevole che parte dal presupposto che forse bisogna ogni tanto fermarsi, riflettere, e ponderare le proprie scelte, per non essere coinvolti in un’imminente catastrofe.

FRANCO MEO

“Quale orizzonte” quando la luce diviene tanto accecante da rendere impossibile la visione e tutta la terra è compresa in ciò che ci circonda. Altrove, la luce si smorza: da un cielo supposto, improbabile o ferito, scorre, come inchiostro versato da uno sguardo, il “fluido” denso di un sentimento che tenta di nascondere, finendo inevitabilmente per metterla a nudo, una nudità che si rapprende o rimane attonita dietro una finestra.
Finchè la sofferenza di un popolo sacrificato alla guerra sottrae dalle mani dell’artista il colore del cielo, che rimane vuoto e immobile, mentre avvolge nel silenzio rovine di mura e strade deserte, dalle quali emerge miracolosamente la figura di una donna, che ridona la speranza.
La materia primordiale che riaffiora dal terreno lascia prefigurare la  scoperta di nuovi straordinari orizzonti, che osserviamo con tanta emozione.

LORENZO MOLINARI (scrittore)

I quadri su Kabul: scorci di un urbanesimo devastante e devastato, scheletri evidenti che segnano il cuore della terra e dell’uomo insieme.
Tele di volti che grondano sciogliendosi in lacrime e sudore.
Un uomo con le mani al volto chiuso nella sua auto, non c’è più nulla di dire, forse nemmeno arriva un soffio di speranza.
Ombre su un mondo ridotto da noi a un cretto, un mondo intero…povero mondo!
Il bimbo dietro a un vetro o uno schermo come se volesse dirci qualcosa, il suo senso, il nostro ormai da molti perso, vorrebbe, ci prova, ma a chi stà dall’altra parte non arriva altro che una cruda immagine.
Un lampione che illumina uno spazio nullo, solo un contorno di finestra, dove potrebbe arrivare la luce, ma l’apertura alla vita della stanza appare troppo in basso.
E poi le danze, la gioia, i colori e la luce: una prospettiva che travolge il nero cupo, in cui ciascuno è protagonista del suo ballare e genera e libera energia vitale, sanificatrice.

GIORGIO DE DAULI (Galleria Duomo, Spoleto)

La giovane artista lombarda ha dimostrato in tutte le sue opere presentate una particolare forza interiore, tratti magnetici accompagnati ad un totale impegno ed uno studio meticoloso dedicato ai grigi, ai neri e alle composizioni colorate che respirano, concentrando tutte le sue domande e risposte, che il pubblico ha percepito completamente, nelle opere proposte. Guerre e devastazioni entrano in primo piano alternandosi a sguardi e volti che hanno il potere di farti pensare e meditare. Pennellate di grande spessore artistico e di forte impatto emotivo. Un’espressione d’arte di alto contenuto che mette in risalto idee centrate sulla quotidianità movimentata d’oggi.